Bruce Springsteen and The E Street Band
Bruce Springsteen and The E Street Band

The River Tour

Milano, Stadio Meazza - 03 Luglio 2016

Foto di Nicola Lonardi

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Anche un autentico “animale” da palcoscenico come Bruce Springsteen è riuscito a sorprendersi, commuoversi ed a vacillare di fronte allo spettacolo che gli si è parato davanti alle 20.15 di domenica 3 luglio al momento di uscire sul palco dello Stadio Meazza in San Siro a Milano (uscita anticipata come sempre in Italia dalle note di “C’era una volta il West” del Maestro Morricone), per il suo primo concerto italiano sui tre previsti (due sere dopo ancora a Milano, poi il 16 luglio al Circo Massimo a Roma) del lunghissimo Tour celebrativo dei 35 anni del fondamentale “The River”.

Di fronte a lui la maestosa Tribuna Ovest, o Rossa che dir si voglia, e l’intero stadio sold out in poche ore di folle vendita di biglietti mesi orsono, gremito da 60.000 fans di ogni età (anche se la media probabilmente era over 40), hanno messo in scena una coreografia strepitosa, frutto dell’Associazione “Our love is Real” che con un crowfounding da 8.000,00 Euro è riuscita nell’impresa di annichilire la già meravigliosa coreografia del Camp Nou di Barcellona nella data d’esordio europea del 14 maggio, e di superare sé stessa rispetto alla coreografia messa in scena nel 2013. Un mare di cartelli azzurri sul prato, tutto il primo anello a comporre il Tricolore e secondo e terzo anello a comporre la scritta DREAM ARE ALIVE TONITE (chiaro il riferimento alla celeberrima frase di The River “Is a dream a lie if it don’t come true, or is it something worse”) in bianco su sfondo azzurro con due mega cuori blu scuro sui lati.

Il Boss si è fermato, ha mimato con le mani la lettura parola per parola, lo sguardo veramente sorpreso e commosso. Poi ha imbracciato la fedele Telecaster, ha detto “Spero non abbiate troppo caldo.” E poi un perentorio “Andiamo” per partire subito con una fantastica “Land of hope and dreams”, brano solitamente sempre eseguito nel finale e non a caso piazzato all’inizio proprio qui a Milano. Perché ci sono posti e posti dove suonare. Ci sono luoghi dove suoni perchè sei un professionista ed è il tuo lavoro, ci sono luoghi che restano nel cuore e Milano per il Boss è il luogo del cuore in Italia.

Ed a Milano il Boss ha regalato una due giorni straordinaria, donando a questo pubblico, che alla fine del concerto definirà “The best audience in the world” ( e lo ha detto senza piaggeria) quanto ancora non aveva regalato durante un Tour Europeo lungo quasi tre mesi. Per la prima volta durante questo Tour il Boss ha riproposto il Pre-Show, il regalo al pubblico del prato, quelli che con il primo vero caldo di questa pazza estate si sono fatti quasi tre giorni di coda per un posto nel pit e poi si sono messi in coda per i posti migliori nel prato. Non erano passati dieci minuti dal suo arrivo allo stadio sotto i nostri occhi che sono riecheggiate le note di “Growin up”.

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Tanto vale togliersi subito il dente e dire quel che assolutamente non è andato di questa serata memorabile. Che San Siro sia una location diversamente acustica è ampiamente risaputo, uno scatolone alto e chiuso fatto apposta per creare riverberi ed effetti strani.

E’ però anche vero che non è la prima (era la sesta) volta che il Boss viene da queste parti, e da un team così solido ed affiatato ci si aspetterebbe un livello di abilità maggiore nel domare le insidie di questo Stadio. Ci riescono i tecnici della Pausini, dei Modà, di Antonacci, di Vasco Rossi, possibile che questi non ci riescano? Eppure per ben un’ora e mezza il livello del suono è inaccettabile, voce massacrata da un livello audio eccessivo degli strumenti, solo confusione il cui effetto era anestetizzato solo nei brani più intimistici.

Se solo il Boss avesse la possibilità di assistere a come questo scempio massacri e penalizzi il suo impegno, crediamo avrebbe ben da ridire sull’operato dei suoi tecnici. Fortuna vuole che non abbiamo a che fare con un artista normale, per cui l’ora e mezza di delirio che avrebbe rappresentato la quasi totalità di un concerto di un Ligabue qualsiasi (a proposito, presente in tribuna, speriamo abbia capito cosa voglia dire essere veramente rock, non un mero professionista del rock) è stata fortunatamente poco meno della metà di uno show straordinario. Per la prima volta (ennesimo regalo a Milano) nel Tour Europeo, dove già si era detto che, a differenza di quanto accaduto nel Tour statunitense,

“The River” non sarebbe stato proposto integralmente (detto fra noi, meglio così), sono stati ben 14 su 20 i brani eseguiti, ma non uno di seguito all’altro, bensì miscelati anche con gli immancabili brani scelti tra le decine di cartelloni agitati sotto il palco. L’energia contagiosa di “The ties that bind” ha subito scatenato lo stadio che si è agitato ancor di più quando sulle note di Sherry Darling il Boss, accompagnato da un Jake Clemons sempre più integrato nella Band a prendere il posto dell’indimenticabile zio Clarence, e da Little Steven che pare quello che fisicamente se la passa peggio di tutta la truppa, sono scesi nel camminamento ricavato tra il pit ed il resto del prato.

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Dopo “Spirit in The night” e la travolgente “My love will not let you down” è partita una mini-serie “fluviale” che ha visto una commovente “Indipendence Day” essere preceduta dalle parole del Boss che ha detto “E’ la mia prima canzone dedicata al rapporto tra padre e figlio”. Il Boss comanda la band da vero Capo, le canzoni si susseguono spesso senza soluzione di continuità con i celeberrimi cambi volanti di chitarra.

Comanda anche il pubblico, chiamando le mani in alto ed i movimenti delle stesse, dalla nostra postazione al centro della Tribuna Rossa fronte palco, il prato sembra in certi momenti un mare di braccia, sempre più bello quando finalmente la notte prende il sopravvento a rendere il tutto ancora più rock. Forse per l’ammiccante pupazzo collegato al cartello il Boss esegue la prima scelta (come sempre colta dall’eccellente regia video - se solo i fonici avessero la stessa finezza e la stessa competenza del regista che non perde nessun dettaglio rimandandolo sui mega schermi-), ed anche questa volta è un regalo a Milano visto che per la prima volta nel Tour esegue “Lucille”, cover di Little Richard che manda in visibilio la folla.

Dopo la altrettanto travolgente “You can look (but you better no touch)” il Boss ha eseguito una triade di pezzi più intima, a partire da “Death to my hometown” per poi passare alla Title track del Tour. Qui l’organizzazione aveva previsto una seconda coreografia, questa volta luminosa che avrebbe dovuto comporre la medesima scritta vista all’inizio attraverso le luci dei telefonini. Le istruzioni erano chiarissime ma come sempre ognuno fa quel che vuole e questa coreografia non è riuscita, salvo comunque lasciare lo spettacolo assoluto di uno stadio completamente illuminato come una sorta di notte stellata a fare da cornice all’esecuzione del Boss.

Altrettanto intensa e sempre bellissima “Point Blank” ha poi ceduto il posto a “Trapped”, cover di Jimmy Cliff che ha nuovamente alzato il ritmo, per una serie aperta da “The Promised Land” ormai elemento fisso di ogni scaletta, per tornare alla fluviale “I’m a rocker”, e ad un’autentica chicca quale “Lucky Town”, seconda scelta da cartello, e pezzo che viene eseguito veramente poco dal vivo. La terza di queste scelte è stato forse il pezzo più esaltante della serata: una “Drive all night” da pelle d’oca, sofferta, partecipata, da lacrime agli occhi. Poesia allo stato puro, cui doveva per forza fare da contraltare un pezzo adrenalinico come “Because The night” con l’ormai tradizionale assolo tarantolato con giravolta su un piede solo di Nils Lofgren.

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The Rising rappresenta anch’esso un elemento ormai fisso in qualsiasi scaletta, sia per il valore simbolico di quella canzone e di quell’album, sia perché oggettivamente è un pezzo capace di caricare a molla il pubblico con quel crescendo travolgente che esplode nel coro. Se poi senza soluzione di continuità parte l’intro scampanellante inconfondibile di Badlands il gioco è fatto e San Siro è definitivamente una bolgia.

Dopo ben 27 pezzi finalmente il Boss si concede (e ci concede) una pausa di cinque minuti. Il tempo giusto di bere un sorso d’acqua che arriva al cuore direttamente la botta di Jungleland, brano di una bellezza lancinante, struggente in quell’assolo di sax di Jake Clemons al termine del quale riceve l’abbraccio del Boss, un abbraccio che dice tanto, che dice l’affetto fraterno per lo zio, che sottolinea la bravura del nipote. E’ un brano che rigenera lo spirito, ma che quasi per magia rigenera anche il fisico visto che sulle note finali finalmente una brezza ristoratrice riesce ad entrare dentro lo scatolone e a dare sollievo dopo una giornata di caldo africano. L’accensione di tutte le luci dello stadio spaventa.

Di solito è un segnale di chiusura, tutti sanno che l’organizzazione ha chiesto ( e lautamente pagato) l’extended play sino alle 00.30 dopo la vergognosa multa per sforamento di orario del 2008, tutti si aspettano un Boss desideroso di sfruttare questo bonus. Ed infatti il Boss non ha per niente voglia di chiudere. La batteria di Max Weinberg ed il pianoforte di Roy Bittan picchiano le prime note di Born in the Usa ed è delirio, che prosegue se è possibile ancor più accentuato con Born to Run. Ramrod viene eseguita in modo spettacolare, in un clima ormai incendiato dove il prato dall’alto ondeggia e dove a volte si sentono tremare sotto i piedi le tribune dello stadio. Non c’è pausa che parte “Dancing in the dark” dove si ripete il rito (anche questo invocato da decine di cartelli) del Boss che invita sul palco alcuni fans (per la verità quasi sempre di sesso femminile) per scatenarsi con loro nel ballo.

Questa volta sono quattro, due espressamente avevano chiesto di ballare con Jake Clemons, una invece ingaggia una danza particolarmente scatenata con il Boss riuscendo addirittura a farsi portar fuori una chitarra per suonare (o fingere, chi lo sa?). Qualcuno è felice del fatto che ci sia stato risparmiato il momento “Zecchino d’oro” sul palco, già visto in altri concerti e si arriva ad un altro elemento, ci verrebbe da dire purtroppo divenuto fisso nelle scalette degli ultimi anni.

Tenth avenue freeze out è l’omaggio del Boss alla Sua Band e soprattutto a chi troppo prematuramente ha lasciato quel palco, prima Danny Federici e poi Clarence “Big Man” Clemons. Vederli comparire sui grandi schermi felici e scatenati in immagini di vecchi concerti è un colpo al cuore autentico. Anche questa volta è una cover a chiudere il primo Encore, Shout degli Islay Brothers, tirata allo spasimo, nel vero senso della parola perché da autentico marpione il Boss finge di non farcela più (oddio, dopo più di tre ore e mezza di show ai suoi ritmi ne avrebbe anche ben donde viste le quasi 67 primavere) e di aver bisogno del sostegno di uno che in realtà sta peggio di lui come Little Steven, per uscire fintamente gobbo e zoppicante dal palco (il martedì arriverà lo svenimento con barella sul palco spinta dal promoter Claudio Trotta).

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Da capobanda autentico il Boss saluta tutta la Band abbracciando ogni singolo componente all’uscita, si fa passare chitarra acustica ed armonica e.....e qui vengono i brividi ancora solo a pensarci ed a scriverne. Parole di affetto vere, autentiche, tutto lo stadio lo vede in faccia, glielo leggi negli occhi perché dal Boss non ti aspetti la ruffianata. Miele autentico per il pubblico, il miglior pubblico al mondo. Perché Milano e questo Stadio sono nel suo cuore, perché suonare qui ha un gusto diverso e lo capisci quando leggi la scaletta degli altri concerti, tipo Werchter in Belgio l’altra sera.

I pezzi sono 27, 10, diconsi 10 in meno rispetto a San Siro, quasi un’ora in meno di show. Qualcosa vorrà pur dire. L’ultimo regalo è quell’intro di armonica che ti entra dritto nel cuore come una freccia, quell’intro che in pratica ti fa mettere mano quasi istantanea al fazzoletto. Thunder Road, così, in acustico, la chitarra, l’armonica, la sua voce più calda e sofferta che mai, unita a quella di 60.000 fans. Vorresti che un momento del genere si eternasse, non finisse mai, vorresti abbracciarlo e dirgli “Grazie Amico, suonane un’altra”.

Ma lo scrigno pieno dei mille tesori per questa sera si chiude così. Narrano le cronache ed i fortunati che ci sono stati, che due sere dopo quello scrigno ha regalato altrettanti pezzi con ben 20 new entry. Ditemi voi chi può fare altrettanto (o, ancora più correttamente, chi, pur avendone la possibilità per ampiezza di repertorio, fa altrettanto)? Sei lì che nonostante tu abbia assistito ad uno spettacolo unico, ti viene quasi da rosicare per quel brano che hanno ascoltato gli altri e non tu, cose da pazzi, cose da innamorati di questo fenomeno autentico che non smette mai di stupire.

Alla fine però, nonostante uno show che altri, non lui, hanno reso imperfetto, sei lì a ringraziare la possibilità di avere assistito ad uno spettacolo che non ha paragoni al giorno d’oggi. God Save The Boss!

SET LIST:

PRE-SHOW
1. Growin' Up
SHOW
2. Land of Hope and Dreams
3. The Ties That Bind
4. Sherry Darling
5. Spirit in the Night
6. My Love Will Not Let You Down
7. Jackson Cage
8. Two Hearts
9. Independence Day
10. Hungry Heart
11. Out in the Street
12. Crush on You
13. Lucille
14. You Can Look (But You Better Not Touch)
15. Death to My Hometown
16. The River
17. Point Blank
18. Trapped

19. The Promised Land
20. I'm a Rocker
21. Lucky Town
22. Working on the Highway
23. Darlington County
24. I'm on Fire
25. Drive All Night
26. Because the Night
27. The Rising
28. Badlands
Encore:
29. Jungleland
30. Born in the U.S.A.
31. Born to Run
32. Ramrod
33. Dancing in the Dark
34. Tenth Avenue Freeze-Out
35. Shout
Encore 2:
36. Thunder Road

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