Brian Wilson a Monaco di Baviera
Brian Wilson a Monaco di Baviera

Munchen Deutsches Theater 4 luglio 2009

Quattro giorni a Monaco con la famiglia e due sere ad assistere ad un paio di eventi musicali unici sono quanto di meglio si può avere.

Così dopo l’entusiasmo per Springsteen è stato il momento della gioia di poter vedere, per la prima volta, Brian Wilson, uno dei miei miti musicali, sin da quando, nella metà degli anni Settanta, iniziai ad ascoltare musica.

Uno dei primi dischi che acquistai fu “20 Golden Greats” dei Beach Boys, cui fecero seguito edizioni economiche e parziali, a prezzi stracciati, di “Surfin’ Safari”, “Surfer Girl”, “Concert” e “Good Vibrations”, consumate dagli ascolti, ma anche, certamente, da stampe di non primissima qualità.

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La meraviglia di quel suono era avvincente, e fu con grande soddisfazione che diedi plauso all’iniziativa della Capitol, all’avvento del compact disc, di riversare su un unico supporto due LPs del gruppo alla volta, completandoli con bonus tracks e libretti ricchi di notizie e fotografie, il tutto, e non guasta mai, a prezzo inferiore al corrente.

L’occasione, quindi, di ascoltare Brian Wilson era unica, poiché solo una volta egli era sceso in Italia, nell’estate 2005, ma (con il senno di poi ingiustamente) gli preferii gli U2, che si esibivano contemporaneamente.

Ed eccoci allora nel Deutsches Theater, una struttura molto bella nella zona del nuovo stadio di Monaco, capace di contenere circa duemila persone, dall’acustica eccellente e perfettamente servita dai mezzi pubblici, con una fermata della metropolitana a non più di cinque minuti a piedi.

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Cose che non succedono in Italia, potrebbe dire qualcuno; in realtà potrebbero succedere, perché teatri di altrettanto valore ne abbiamo anche qui da noi, direi anzi migliori (che ne direste di un’uscita di Brian Wilson al Teatro Romano, a Verona ?), ma forse manca un po’ di iniziativa, di coraggio, di passione per la musica e per questo tipo di eventi.

Ma torniamo a quello che più ci sta a cuore.

Brian Wilson dirige questa sera la Beach Boys Sound Orchestra.

Suona poco il pianoforte, ed alla fine imbraccia il basso più per presenza, che per necessità, canta in misura moderata e qui e là.

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Lo sguardo è un po’ assente, e per un momento ha la meglio la malinconia.

Poi ci pensi un attimo su, e ti rendi conto, ripensando ai lavori passati, che anche con i Beach Boys, lui cantava poco, ed il suo strumento (all’inizio il basso e poi il pianoforte) non era certo quello che prendeva la scena.

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Prima c’era la voce di Mike Love, la chitarra di Carl Wilson, la batteria ed il fascino di Dennis Wilson.

Lui, del resto, era solamente il compositore delle loro canzoni.

Dal 1961 in avanti questo genio ha scritto decine di canzoni che sono entrate nella storia della musica, e che per la loro originalità hanno lasciato un segno indelebile, ma anche una scia di difficilissima “ripetizione”.

Pochi autori come il nostro hanno composto brani irripetibili, parte ormai della nostra musica, ma raramente eseguiti dal altri.

Questa sera Brian Wilson si cala, come ormai è sua tradizione da tempo, nelle vesti del maestro di cerimonie, del direttore di quella che ho volutamente definito la Beach Boys Sound Orchestra, una band composta da una decina di musicisti, che certamente suona come suonerebbero i Beach Boys se fossero nati e cresciuti nel nuovo millennio.

Così egli organizza e coordina il gruppo, regolando ingressi ed abbandoni dei singoli strumenti, preparando loro lo spazio per gli assoli, scaldando il pubblico a braccia alzate per cogliere l’entusiasmo di chi è accorso a vedere una leggenda.

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Talora le mani sfiorano la tastiera, ed alla fine fanno pulsare il basso, ma la sua presenza è certamente quella di chi ci deve guidare per più di due ore attraverso una parte di storia della musica rock.

Solo elencare le canzoni, una per una, mette i brividi, al solo pensiero che tutto questo patrimonio musicale è uscito dalla sua penna e dalla sua mente.

Leggetevi la setlist e comprenderete perché.

Lo accompagna un gruppo numeroso e ben rodato, dove ognuno conosce bene la sua parte, e sa dove arrivare, ma anche dove fermarsi, senza strafare e senza volersi inopportunamente porre davanti agli altri.

Non avrebbe senso, poiché, per quanto bravi, sono pur sempre solo gli esecutori di capolavori altrui, ed il compositore è presente, discreto e paterno, ma anche severo ed attento.

Piace in questa musica il desiderio di mettere ogni nota ed ogni strumento al posto giusto, l’impasto musicale e l’incrocio strumentale che si inseriscono nel muro di suono che sprigiona da un palco ricco di colori di luci (spesso predominanti il giallo ed il rosso del sole della sua California) e di musica per invadere di suoni gioiosi, ma ricercati, il pubblico.

Dicevamo dei brani.

Ora si imporrebbe un loro censimento, elencandone, magari di ciascuno, i momenti pregevoli e gli attimi più entusiasmanti o toccanti.

Ma come si può, di fronte a tanto, scegliere una cosa ed escluderne un’altra, preferire una canzone a scapito di un’altra ?

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Sarebbe fare torto al genio, che tale è, anche quando si dedica ai brani altrui (ed alla fine del concerto quelli eseguiti non saranno occasionali episodi), come nel rispolverare “Do You Wanna Dance” di Bobby Freeman, uno dei più trascinanti e coinvolgenti pezzi del classico rock’n’roll, impareggiabile nell’esecuzione del gruppo di Brian Wilson oggi, come lo era stato in “Beach Boys Today”, nel 1965.

Ed allora, tanto per non dire che il racconto è noioso, perché parlare di un concerto senza citare le canzoni è come una partita di calcio senza reti, diciamo dell’apertura con “California Girls”, e della doppietta “Surfer Girl” / “In My Room”.

E poi, nella seconda parte, “Sloop John B”, “Wouldn’t It Be Nice” e “God Only Knows”, una dietro l’altra.

E se non basta, sotto con il finale “Good Vibrations”, “Johnny B Goode”, “Help Me Rhonda”, “Barbara Ann”, “Surfin’ U.S.A.” e “Fun Fun Fun”, brani originali di Wilson e composizioni altrui perfettamente incasellate le une nelle altre senza soluzione di continuità.

Ci sono due anime che convivono meravigliosamente, nella musica di Brian Wilson, sin dagli albori dell’avventura Beach Boys.

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E’ così che allo spirito del rock’n’roll si alterna, in un caleidoscopio di colori e suoni perfetti, l’amore per la canzone soffusa e sognante, ed una di queste chiude il concerto, estratta dal cilindro magico della sua produzione solista (a proposito, cercatevi “That Lucky Old Sun”, l’ultimo suo lavoro, una delle cose più belle del 2008) meno recente.

“Love And Mercy”, è una ballata di inequivocabile matrice Brian Wilson, che l’arrichisce con i cori del suo gruppo, rendendola una canzone di oggi come l’avrebbero eseguita i Beach Boys quarant’anni fa.

Il genio è riuscito ancora una volta in una delle sue imprese, donando nuova linfa alla sua musica, portandola via all’impietoso scorrere del tempo, come se fosse stata scritta negli anni Duemila.

La magia dell’epoca è rimasta intatta, senza che nessuno possa realizzare quanti sono gli anni trascorsi.

Quintessenza del talento.

SCALETTA:

That Lucky Old Sun (reprise)
California Girls
Catch A Wave
Row Row Row You Boat
Dance Dance Dance
Surfer Girl
In My Room
Salt Lake City
409
Little Deuce Coupe
Soul Searchin’
Desert Drive
Don’t Worry Baby
I Get Around
Do It Again
Sail On Sailor
Marcella
The Little Girl I Once Knew
Then I Kissed Her
Your Imagination

Add Some Music To Your Day
When I Grow Up (To Be A Man)
All Summer Long
Custom Machine
Shut Down
Do You Wanna Dance
Sloop John B
Wouldn’t It Be Nice
God Only Knows
Midnight’s Another Day
That Lucky Old Sun (reprise)
Going Home
Southern California
Good Vibrations
Johnny B Goode
Help Me Rhonda
Barbara Ann
Surfin’ U.S.A.
Fun Fun Fun
Love And Mercy

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