Ashley Hutchings’ Rainbow Chasers
Ashley Hutchings’ Rainbow Chasers

Verona, Castello di Montorio 30 luglio 2009

Foto di Mauro Regis

Fairport Convention, Steeleye Span ed Albion Band sono il comune denominatore per Ashley Hutchings, bassista che alla guida di quelle tre bands, dal 1967 in avanti rinnovò i rapporti che c’erano fra la musica della tradizione inglese e quella elettrica che stava avanzando, e che solo per praticità potemmo definire rock.

Quella storia è narrata nella bellissima biografia di Ashley Hutchings, “The Guv'nor And The Rise Of Folk Rock”, mai tradotta in italiano, ma che meriterebbe la lettura da parte di chiunque si professi appassionato di musica, tanto più perché contenuta in un libro ricco di aneddoti e memorabilia, e ad un prezzo ben lontano da quello di talune lussuose, ma contenutisticamente vuote, edizioni uscite negli ultimi anni sui nostri scaffali.

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In una calda serata di fine luglio il maestro è ospite di Verona, e si esibisce al Castello di Montorio, un’ubicazione particolare e ricca di fascino, in compagnia della sua ultima creatura, i Rainbow Chasers.

Dopo le esperienze passate il nuovo gruppo rappresenta un punto di volta nella sua vita artistica.

Se, infatti, le prime tre bands avevano fatto della musica tradizionale, pur se in diversa misura e con diverso approccio, il riferimento essenziale ed ineludibile, quest’ultima, in attività ormai da quattro anni, fa di un proprio repertorio originale il momento essenziale della propria musica.

E così è anche a Montorio, dove il gruppo si presenta per metà con componenti originali (Ashley Hutchings, ovviamente, e Jo Hamilton, alla chitarra ed alla viola, e titolare di pregevoli opere solo), e per metà con novizi (Joe Topping, alla voce ed alla chitarra, in sostituzione del definitivamente dipartito Mark Hutchinson, e Jackie Oates, in temporanea sostituzione di Ruth Angell, data per impegnata – non si sa se come ospite o musicista – ad un matrimonio nella sua terra natale), ma senza perdere alcunché del vigore e della forza, soprattutto negli impasti vocali, che fino ad oggi l’hanno caratterizzato.

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Hutchings, va detto per amore di verità, veste ora i panni del maestro di cerimonie, del direttore d’orchestra, della guida, anche spirituale, per i tre giovani che l’aiutano sul palco.

Certo, il suo basso rimane un marchio di fabbrica, ma sicuramente il passato lo vide ben più protagonista ed in evidenza di quanto non lo sia oggi, cosa, che, peraltro, è scelta e voluta come risultato di un percorso artistico che ha pochi eguali e che non molti possono dire di vantare.

Il cambio di rotta risulta evidente non solo dalle sonorità, che, in realtà, si avvicinano a quelle del passato, anche se svuotate di tutta l’energia elettrica che le caratterizzava (in particolare le esperienze Fairport Convention e Steeleye Span), ma soprattutto dal modo di porsi di Hutchings.

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Il maestro non vuole più essere il centro dell’attenzione, e non si preoccupa, anzi, non disdegna proprio, di porsi spesso in un angolo, anche solo ad assistere, senza intervenire con il suo strumento, all’esibizione del gruppo.

E’ una scelta di grande umanità e di grande valore artistico quella che egli ha deciso di attuare.

Per quarant’anni il folk rock inglese (chiamiamolo così per praticità) ha avuto punti di riferimento fissi e splendenti (Martin Carthy, Dave Swarbrick, John Kirkpatrick, dovendone indicare tre) e fra essi anche Hutchings.

Ora egli ha deciso di mettere la propria arte ed il proprio mestiere al servizio di una sua band, dove, però, emergano anche – e soprattutto – i singoli talenti, e non tanto il suo infinito sapere musicale.

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Così, anche la scelta dei brani, ne risente inevitabilmente.

Tutte le composizioni sono originali ed arrivano dalla penna dei Rainbow Chasers, lasciando il ricordo della tradizione solo in “The Lark In The Morning”, tradizionale passato per infinite mani, incluse quelle, presente Ashley Hutchings, di Fairport Convention e Steeleye Span.

La musica scorre, quindi, fluida e precisa, con spazi solo lasciati ai singoli componenti, fra i quali, già conosciuta ed apprezzata Jo Hamilton, non possiamo non citare per le capacità strumentali, la violinista Jackie Oates.

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Il pubblico è accorso numeroso, anche se non v’è dubbio, ma certezza, che ciò è stato determinato, in gran parte, dalla gratuità dell’evento.

In sé la cosa può essere valutata positivamente, se destinata ad avvicinare a questo patrimonio musicale una nuova schiera di appassionati, spettatori in futuro anche di spettacoli a pagamento, risolvendosi, invece, in una nota negativa, se rimasta circoscritta al singolo momento, senza alcuna prospettiva futura.

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Musica di qualità come questa non sempre attrae il pubblico delle grandi occasioni, anche quando la presenza e la statura artistica di chi sale sul palco, unitamente alla modestia del costo del biglietto, giustificherebbe una larga partecipazione.

Si tratta, ovviamente, di cultura, e nulla più.

E quella della tradizione, sia italiana, sia non italiana, è una cultura davvero carente nella nostra realtà artistica, che troppo spesso privilegia modeste forme, a ben più considerevoli sostanze.

SCALETTA:

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