Caith
Caith

L’articolo che segue è volutamente “contro” a tante cose. Contro il razzismo di marca “politica” che ha ormai preso piede in questo “assurdo belpaese”, con l’avallo dei governanti di turno. Contro l’ipocrisia di chi crede di far del bene preservando la razza e di mantenere una purezza che tale non è. Contro chi si dichiara “democratico”, “pluralista” o semplicemente “aperto” e poi rifiuta in toto “il diverso”. Contro chi mette la pulizia etnica nel suo programma di governo, facendola passare per “sicurezza”, per “diritto dei cittadini”, per “requisito essenziale di una società civile”! Non so quanto ci sia di civile nel condannare a morte chi chiede aiuto e nel rispedire al mittente le lettere umane che ci arrivano dal mare! Abbiamo una tradizione di migranti, di gente che si è smazzolettata migliaia di Kilometri per lavorare, per sfamare i propri figli, per procurare quel “benessere” di cui ora meniamo vanto! Allego quindi questo scritto di Alberto, di questa “new generation” di ragazzi spesso sottovalutati ed oggetto di pregiudizio. Per il CAITH abbiamo suonato il 10 maggio 2009 con il FALC senza la “elle”.

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Ringrazio di cuore gli amici Carlo e Fulvio per aver dedicato una domenica di sole e bel tempo ad un progetto importante, seppur non mastodontico. Li ringrazio per l’amicizia, la disponibilità di sempre, la pazienza nel supportare (e sopportare!) altri artisti che hanno improvvisato con noi…e la loro apertura! Pur se di idee politiche diverse, si dimostrano sempre al di sopra! Bando alle ciance, vi lascio all’articolo e a qualche bella foto dal Sudamerica.

E come cantavano i Nitty Gritty Dirt band : “Music forms a circle”!
Alla prossima!
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Yanapanakusun (“aiutiamoci” in lingua quechua)
(Tonellato Alberto)

“Queste ultime erano adolescenti reclutate in campagna e destinate a rimanere a servizio per il resto della loro vita, a meno che non restassero incinte o si sposassero, eventualità assai remote. Queste fanciulle votate al sacrificio crescevano, avvizzivano e morivano nella casa, dormivano in stanze lerce e prive di finestre e mangiavano gli avanzi dei pranzi dei padroni…”
- Isabel Allende, Ritratto in seppia

Circa tre anni fa ho avuto modo di vedere, conoscere e farmi raccontare una piccola parte di questa realtà.
Viaggiando in Perù sono stato ospite di Vittoria, un’insegnante italiana che da molti anni sostiene le lavoratrici domestiche. Infatti a Cusco, capitale dell’impero Inca sul cammino per Macchu Picchu, ancora esistono ragazzine, molto spesso solo bambine, costrette alla schiavitù nonostante questa sia vietata dalla legge peruviana. E questo ad oltre un secolo dal racconto di Isabel Allende! Anche se il fenomeno è diffuso in tutto il Perù e, più in generale, in tutta l’America Latina, è qui che Vittoria ha fondato nel 1994 il Caith ("Centro de Apoyo Integral a las Trabajadoras del Hogar" - Centro di appoggio integrale per le lavoratrici domestiche) con lo scopo di restituire una vita a queste donne.

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Come si diventa lavoratrici domestiche?

Una sera Vittoria mi ha raccontato che tutte le ragazze che lavorano nelle case delle famiglie più facoltose provengono da situazioni familiari ed economiche molto difficili e solitamente è appunto la disperazione ad alimentare lo sfruttamento minorile.

Spesso, infatti, sono le stesse famiglie di campesinos (comunità di contadini) a portare le proprie figlie di quattro o cinque anni in città, nella speranza di farle salire nella scala sociale e poter quindi avere una vita migliore. Un’altra possibilità è quella che le future padrone vadano direttamente a reclutare queste bambine, promettendo istruzione e pasti in cambio di qualche piccolo lavoro domestico. Infine possono essere le stesse ragazze che decidono di scappare in città, sognando un futuro diverso.

Solo motivazioni davvero gravi possono portare un genitore a “cedere” il figlio, ma credo che da condannare davvero siano le persone che hanno molto ed illudono chi non ha niente.

Ma in città come “cambia” la vita per una trabajadora?

Ogni speranza ed ogni promessa svaniscono subito: già all’età di quattro anni queste bambine vengono chiuse in cucina, dove non è consentito uscire se non per servire i figli dei padroni e pulire casa, dove devono cucinare e mangiare i pochi avanzi che vengono lasciati loro, dormire per terra, dove non possono avere una vita sociale o un’istruzione e dove vengono lasciate anche per giorni al freddo e senza viveri se i padroni decidono di andare in vacanza. Quando sono più grandi la vita diventa ancora più difficile perché oltre alle violenze fisiche e psicologiche, spesso subiscono anche violenze sessuali.

Nel caso la famiglia d’origine volesse cercare di mettersi in contatto con la figlia, il ricongiungimento non viene concesso: ai genitori si fa credere che lei non voglia più vederli perché “troppo cittadina” per loro, alla bambina che questi non abbiano mai nemmeno provato a cercarla. Questo ha come conseguenza un profondo senso di abbandono e poi di odio verso i familiari, che spesso porterà la ragazza a non voler più tornare a vivere con loro.

Le uniche possibilità che rimangono alle trabajadoras per cambiare vita sono scappare o restare incinte: nel primo caso, quando sono trovate dalla polizia, le autorità non sanno a chi affidarle e vengono quindi rinchiuse in un carcere minorile. Nel secondo caso, se sono “fortunate”, possono prestare servizio in casa fino all’ottavo mese e poi sono lasciate libere, ma senza documenti ed un posto dove andare; altre volte, purtroppo, non va così “bene”: alcune giovani madri vengono picchiate fino alla perdita del figlio, altre, addirittura, costrette ad uccidere il bimbo appena nato, al fine di far sparire le tracce degli stupri subiti, essendo queste gravidanze frutto di violenze da parte del padrone di casa.

Quello che più mi ha fatto paura è stato scoprire come le famiglie ricche non riescano a capire che non vi è alcuna differenza tra i loro figli e quelli delle comunità campesine, che trattano più come animali che come persone; ricordo bene quanto quelle storie di ragazze anche più giovani di me (in quel momento avevo quindici anni) mi abbiano rubato qualche ora di sonno e mi abbiano spesso portato a domandarmi sia come facessero a continuare, giorno dopo giorno, quella vita, sia come persone “normali” ed istruite (medici, avvocati, commercianti…) considerassero “normale” questa forma di razzismo.

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Come opera il Caith?

Il giorno seguente ho avuto modo di capire come il centro Caith sia un punto di riferimento per tutte le ragazze che intendono cambiare, o in ogni caso migliorare, le proprie condizioni di lavoratrici domestiche. Vittoria, insieme ad altre donne peruviane e ad alcuni volontari, offre loro un alloggio alternativo alla prigione dove poter vivere con altre persone, aiuto di tipo psicologico e legale al fine di sostenerle quando escono dall’isolamento, una scuola in orario serale per le ragazze che ancora lavorano e una per quelle che vivono nel Centro. Inoltre viene portato avanti un progetto di sensibilizzazione sia delle famiglie campesine, per chiarire come verranno poi trattate le ragazze se le danno in affidamento a delle persone facoltose, sia di quelle cittadine perché vengano rispettati i diritti delle bambine. Attraverso una stazione radio in lingua quechua, lingua parlata in Perù prima dell’arrivo degli spagnoli e ancora usata nelle comunità più isolate, riescono infine a raggiungere anche le ragazze che sono ancora in schiavitù, per far sapere che esiste un’altra possibilità e farle sentire meno sole nel vivere la loro esperienza. Non meno importante è l’attività politica del Caith che si rivolge al governo peruviano perché censisca le trabajadoras e operi per porre fine a questa usanza inaccettabile.

Cosa si può fare per sostenere il Caith?

Nonostante il Centro cerchi di autofinanziarsi attraverso iniziative di turismo sostenibile e la gestione di un ostello, è molto difficile, se non impossibile, per Vittoria e le sue collaboratrici raggiungere una discreta autonomia economica. Con le persone che hanno vissuto con me questo viaggio e questa esperienza abbiamo deciso di fondare anche a Treviso un comitato di appoggio e organizzare una grande festa, una volta l’anno, al fine di raccogliere fondi per il Caith.

Perciò il 10 maggio 2009 si terrà la terza edizione della “Festa per il Caith” che l’anno scorso ha visto la partecipazione di molte persone e ha portato al Centro quasi 3000 euro per sostenere la scuola (lo stipendio di un insegnante per un anno è di circa 4000 euro).

L’idea di questa giornata è quella di offrire a tutti gli amici, ed agli amici degli amici, l’occasione per parlare, ascoltare buona musica e ballare insieme, insomma, di stare in compagnia. Anche quest’anno infatti ognuno di voi potrà portare qualcosa da mangiare da mettere in comune, fare una offerta libera (solitamente chiediamo un minimo di 10 euro) e i più coraggiosi potranno esibirsi liberamente sul palco. Ovviamente sono invitati amici, parenti e chiunque abbia voglia di passare una giornata un po’ diversa a favore di una situazione difficile che, come tante altre, non possiamo continuare ad ignorare. La struttura che ci ospiterà sarà quella del Centro di San Martino in via Chiesa a Lughignano dalle ore 12.00 fino a sera.

Per informazioni sul Centro Caith: 
http://www.caith.org/italiano/chi_siamo.php
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